Il mercato mondiale dell’auto potrebbe non crescere più nei prossimi dieci anni: lo studio

Non facciamoci illusioni: la crisi del mondo dell’auto non è momentanea né passeggera e il problema dei dazi voluti da Trump è solo uno dei tanti, forse neppure il più grave. A pensarla così, sulla base di uno studio approfondito, è Gianluca Di Loreto, partner della società di consulenza strategica Bain & Company, che ha presentato le sue conclusioni sullo stato attuale e futuro dell’automotive nel corso della conferenza annuale dell’Aniasa, l’Associazione Nazionale Industria dell’Autonoleggio, della Sharing mobility e dell’Automotive digital. Per Di Loreto, infatti, il mercato mondiale dell’auto non crescerà più per molto tempo, almeno per i prossimi dieci anni. Dopo il boom che lo ha visto letteralmente esplodere, passando dai 56 milioni di esemplari del 2001 ai 73 del 2010, fino ad arrivare ai 94 milioni del 2017-2018, sulla spinta della forte crescita cinese, i volumi, già scesi a 90 milioni nel 2019, si attesteranno da qui alla fine del decennio in corso intorno ai 95-97 milioni, con un incremento medio annuo globale non superiore allo 0,2%. E la cosa più grave è il "disaccoppiamento" ormai avvenuto a partire dal 2019 tra l’andamento positivo del Pil mondiale, in lenta ma costante ripresa, e la produzione di veicoli: mentre un tempo i due indicatori andavano di pari passo, adesso tra loro si registra una forbice accentuata, che si traduce in una stagnazione o recessione dell’industria automobilistica planetaria.
Che cosa sta succedendo, allora, in questo settore? Nel periodo 2001-2017, spiega Di Loreto, nonostante la sostanziale saturazione di mercati storici come quelli di Europa e Nord America, a trainare la produzione di auto è stata l’Asia, con una crescita del 7,4% dei Paesi che occupano la fascia meridionale di quel continente e addirittura del 16,6% della Cina. Lo studio di Bain & Co. prevede invece che da qui al 2030 Europa e Nord America registreranno una contrazione dei propri volumi (tra lo 0,4 e l’1,2%), così come il Giappone e la Corea; crescerà del 2,7% l’Asia meridionale, mentre la Cina resterà sostanzialmente ferma, accumulando incrementi minimi, nell’ordine dello 0,3%. Entro il 2028 l’Europa perderà 15 milioni di vendite di veicoli e il Nord America 7,5 milioni: sono previsioni che devono far riflettere molti costruttori.
Se si analizza, come ha fatto Di Loreto, la ripartizione geografica delle vendite, si vede infatti come i maggiori costruttori tedeschi siano fortemente dipendenti dal mercato cinese: Volkswagen vi ha venduto nel 2024 il 41% della propria produzione, Audi il 39%, Mercedes il 31%, Bmw il 32%. Pechino risulta invece un mercato marginale per le industrie francesi e italiane del settore (Renault e Stellantis), che concentrano dal 45 all’83% delle proprie vendite in Europa, e per quelle americane (Ford, Chevrolet, Jeep come marchio), che collocano nel proprio continente d’origine dal 59 al 67% delle vendite. La saturazione del mercato cinese, insieme alla stasi di quello europeo e una possibile chiusura alle importazioni di quello americano a causa dei dazi, prospettano un quadro di grande difficoltà per tutti i costruttori, ma ancora più grave per quelli tedeschi, sbilanciati come sono verso il grande Paese asiatico: i rischi per i loro stabilimenti nel Vecchio Continente sono elevati. Nel 2019, infatti, la capacità produttiva installata in Germania era di 9,7 milioni di vetture, con un utilizzo reale pari al 78%; nel 2025, la capacità risulta di 11,2 milioni e l’impiego solo del 57%, che potrebbe scendere al 56% nel 2032. Già quest’anno, Mercedes ha sfruttato solo il 55% del proprio potenziale, Bmw e Volkswagen il 58%, Tesla il 61%; e non vanno meglio le cose per Stellantis, ferma al 48%, e Toyota, a sua volta al 58%. Quanto a lungo i costruttori potranno reggere simili percentuali d’inutilizzo del proprio potenziale produttivo? E quanto ne risentiranno i loro bilanci? Alla fine, conclude Di Loreto, considerando che più della metà dei margini delle Case tedesche derivavano dal mercato cinese, il vero problema dell’auto non è la transizione alla mobilità elettrica, né a spaventare devono essere i dazi: la reale crisi ha origini a Pechino e (enormi) dintorni. Qualcosa che, per inciso, non spaventa invece i costruttori americani, abituati a sostenersi maggiormente con il mercato interno, né quelli giapponesi e coreani, che sono stati abili nel gestire in maniera più equilibrata la ripartizione geografica delle proprie vendite.
Lo studio di Bain ha voluto indagare, come di consueto negli ultimi anni, anche le abitudini alla mobilità degli italiani, basandosi su un campione statisticamente significativo d’indagine. L’utilizzo dell’auto resta centrale negli spostamenti ed è anche in decisa crescita rispetto agli ultimi anni: nel 2024, l’80% del campione ha rivelato d’impiegarla più di tre volte alla settimana, quindi abitualmente. Mentre il trasporto pubblico resta stabile, diminuisce l’impiego di scooter, risulta in flessione quello occasionale di car sharing e taxi, si mantiene su un buon livello quelli di biciclette e bike sharing (ma sempre come modalità occasionale e non ricorrente). L’auto, dunque, è molto utilizzata, ma sono pochi quelli che la comprano: l’affermazione "non ho considerato l’acquisto di una vettura nuova" è salita dal 57 al 62% del campione tra il 2023 e il 2024. La conseguenza di questo atteggiamento si misura in una contrazione del mercato, nell’aumento dell’età media del parco circolante (che ormai sfiora i 13 anni) e in una crescita delle emissioni. Colpa dei prezzi troppo alti che, tra l’altro, favoriscono l’interesse per le proposte competitive dei costruttori cinesi, di recente affacciatisi sul nostro mercato. Ma c’è un altro aspetto interessante di queste dinamiche: l’uccisione del diesel, la cui quota di mercato è crollata dal 56% del 2015 al 10% del primo trimestre di quest’anno, non ha portato benefici per l’ambiente, limitatamente all'ambito delle emissioni di CO2. La media di emissioni delle auto vendute è stata infatti nel 2024 di 119,1 g/km di CO2, contro i 108,3 del 2020: poco incidono, infatti, le elettriche e le ibride plug-in, ferme a quote tra il 4,3 e il 5,2% delle immatricolazioni. E la crescita delle Bev si è ormai arrestata anche in altri Paesi europei, su livelli sì più alti rispetto ai nostri, ma inchiodati da tempo sempre sugli stessi valori.
La Gazzetta dello Sport