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I motivi per cui l'Anas aveva bisogno dell’aumento dei pedaggi

I motivi per cui l'Anas aveva bisogno dell’aumento dei pedaggi

La recente vicenda dell’aumento dei pedaggi autostradali, previsto a partire dal 1° agosto e poi cancellato, ha riportato alla luce il tema della gestione da parte dell’Anas di tratti di strade già sotto il suo controllo, passati poi a enti locali, e tornati nel suo ambito in tempi più recenti. L’incremento tariffario, contemplato in un emendamento al decreto Infrastrutture in corso di approvazione, era mirato infatti ad accrescere il canone compreso nei pedaggi e destinato all’Anas per la manutenzione delle strade: una somma di circa 90 milioni di euro all’anno, necessaria per far fronti ai maggiori costi dovuti agli alti prezzi dell’energia, necessaria per l’illuminazione, e alla "ridefinizione della rete stradale" gestita, ossia al maggior numero di chilometri dei quali l’ente, dal 2018 parte del Gruppo Ferrovie dello Stato, deve farsi carico. L’aumento era, in verità di entità modesta, essendo pari a un millesimo di euro a chilometro, in pratica un euro ogni 1.000 chilometri percorsi, ma ragioni di opportunità politiche hanno indotto il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini a chiedere il ritiro dell’emendamento. Le risorse necessarie saranno reperite in altro modo, probabilmente facendo ricorso a un fondo esistente (il Fondo centrale di garanzia per le autostrade e le ferrovie metropolitane), destinato in origine ai nuovi progetti e utilizzabile per coprire i maggiori costi: resta però la curiosità di capire il meccanismo in base al quale la rete stradale gestita dall’Anas si sia nel tempo sgonfiata, per poi tornare a gonfiarsi in epoca più recente.

Partiamo da una breve premessa: il Codice della strada suddivide la nostra rete viaria in strade statali, regionali, provinciali e comunali: solo le prime sono d’interesse nazionale e, pertanto, vengono gestite dall’Anas. Si tratta di arterie storiche che, spesso, ricalcano i percorsi delle Consolari tracciate dagli antichi romani, come l’Aurelia, la Flaminia, la Cassia e la Salaria. Nel 1997, però, una legge, detta Bassanini dal cognome dell’allora Ministro della Funzione Pubblica, prevedeva una serie di provvedimenti basati sul principio del decentramento e del federalismo amministrativo: lo Stato intendeva sgravarsi di alcune funzioni, per rendere più snelli i processi burocratici. Sulla base di questo impianto teorico, l’amministrazione centrale iniziava a delegare a Regioni, Province e Comuni una serie di competenze, compresa una parte di rete viaria non considerata d’interesse nazionale. L’Anas, dunque, provvedeva a declassare parte della propria rete e a trasferirne la gestione a Regioni e Province, che classificavano lunghi tratti delle precedenti s.s. come s.r. e s.p. I primi enti ad assumersi la responsabilità della propria rete furono le province autonome di Trento e Bolzano, poi via via il processo di federalismo stradale ha portato alla cessione di tratti sempre più lunghi di viabilità, portando a una riduzione di circa 4.000 chilometri dell’estensione della rete già nei primi due anni di applicazione della normativa. Spesso si trattava di arterie di un certo rilievo, come per esempio tratti della s.s. 11 Padana Superiore in Veneto, della s.s. 9 via Emilia, della s.s. 12 dell’Abetone e del Brennero, della s.s. 7 Appia e della s.s. 125 Orientale Sarda.

Le amministrazioni territoriali, col passar del tempo, si sono trovate però in difficoltà a far fronte agli impegni derivanti dall’incremento della propria rete stradale: la manutenzione e la conservazione di carreggiate, gallerie, ponti e viadotti richiede risorse, economiche e tecniche, delle quali Province e Regioni non sono spesso dotate in maniera adeguata. Gli enti locali, con le casse esauste e assorbite da altri capitoli di spesa (alle Regioni, per esempio, spetta la sanità, alle Province l’edilizia scolastica), si sono dimostrati non in grado di far fronte alle necessità di una rete stradale cresciuta considerevolmente e bisognosa di costanti interventi di manutenzione e miglioramento. Oltre ai soldi, nelle realtà più piccole mancavano anche negli uffici tecnici risorse umane sufficienti per far fronte all’accresciuta mole di impegni. Così, si è assistito a un progressivo degrado della viabilità, con punte eclatanti in certe aree, come per esempio la provincia di Pavia, salita alla ribalta delle cronache proprio per questo tipo di difficoltà. Nel 2018, vent’anni dopo l’avvio della decentralizzazione, è così iniziato un piano di "Rientro strade", stabilito dall’Anas di concerto con il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti; 6.500 chilometri di statali, diventate regionali e provinciali, si avviavano a tornare progressivamente sotto la gestione dell’ente di Stato. Il piano prevedeva stanziamenti di fondi per 1,1 miliardi di euro e uno sviluppo in più fasi; alla fine di quell’anno erano tornati all’Anas 3.513 chilometri di strade, comprendenti 1.619 tra ponti e viadotti e 123 gallerie, sparsi in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Lazio, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Toscana e Umbria. La seconda fase, avviata nell’aprile del 2021, ha previsto il rientro di altri circa 3.000 chilometri, tra Emilia-Romagna, Piemonte, Lombardia e Toscana, comprendenti circa 1.300 ponti, subito sottoposti a monitoraggio a seguito del crollo del viadotto Morandi di Genova (avvenuto il 14 agosto del 2018). Questo spiega come l’Anas, che si era trovata a gestire una rete di circa 25.000 chilometri di strade, oggi ne controlli oltre 32.300, comprese le autostrade prive di pedaggio (come la Salerno-Reggio Calabria), gli svincoli e le complanari; una rete che include 2.157 gallerie, bisognose di monitoraggio e manutenzione, e che costituisce, insieme alle autostrade, un’ossatura fondamentale della mobilità del nostro Paese.

La Gazzetta dello Sport

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