Citroën 2CV: la leggenda che cambiò per sempre la mobilità popolare

Dopo oltre quattro decenni di storia e quasi 3,9 milioni di esemplari prodotti, si chiudeva il sipario su una delle vetture più amate e rivoluzionarie mai costruite. In realtà, si apriva il primo atto di un mito.
Nata per portare l’auto a chi non poteva permettersela, la 2CV fu il frutto di un’idea tanto semplice quanto ambiziosa: offrire una mobilità essenziale ma confortevole, economica ma robusta. La sua genesi affonda le radici nel 1935, quando Pierre-Jules Boulanger succeduto ad André Citroën diede il via al progetto TPV (Toute Petite Voiture). L’obiettivo era audace: creare un’auto capace di trasportare due contadini con zoccoli e sacchi di patate a 60 km/h, consumando solo tre litri di carburante ogni 100 chilometri.
A fine anni ’30 furono costruiti centinaia di prototipi, ma lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale ne bloccò il lancio. Solo nel 1948, al Salone dell’Auto di Parigi, il pubblico poté finalmente conoscere la 2CV. All’inizio fu accolta con sarcasmo: troppo spartana, troppo bizzarra. Ma il mercato ebbe l’ultima parola. In pochi anni, la richiesta superò ogni aspettativa, costringendo gli acquirenti ad attendere anche 18 mesi per la consegna.
Il suo design iconico, firmato dall’italiano Flaminio Bertoni, era figlio dell’essenzialità, ma sotto il cofano batteva un cuore tutto tricolore: quello progettato da un altro italiano, Walter Becchia. Nato a Casale Monferrato nel 1896, Becchia fu costretto a emigrare in Francia per motivi politici. Lì lavorò con Talbot-Lago, ma fu Citroën, nel 1939, a riconoscere il suo talento. In piena occupazione nazista, con pochi mezzi a disposizione, Becchia mise a punto un bicilindrico orizzontale raffreddato ad aria ispirato a un vecchio motore di motocicletta. Fu l’inizio di una rivoluzione meccanica: il suo motore equipaggiò milioni di vetture per decenni.
Con 9 CV, 375 cm³ e 60 km/h di velocità massima, la prima 2CV sembrava fatta su misura per le strade di campagna francesi. Ma nei decenni successivi seppe adattarsi a tutto: salì fino a 29 CV, superò i 120 km/h e si moltiplicò in decine di varianti – dalla Dyane alla Méhari – rimanendo sempre fedele alla sua anima popolare.
La 2CV non fu solo un’auto. Fu compagna di viaggio, simbolo generazionale, protagonista al cinema e nelle imprese sportive più folli. Fu scelta dagli hippie per la sua sobrietà, dagli intellettuali per la sua eccentricità, dai giovani per il suo costo accessibile. E anche da chi, semplicemente, cercava un’auto che non tradisse mai.
Tra le sue eredi spirituali, figurano la Citroën Ami6, la Dyane, la Méhari. Tutte con il motore firmato Becchia, tutte testimoni di un’epoca in cui l’auto era sinonimo di libertà e sogno, più che di status. Persino durante la crisi petrolifera degli anni ’70, la 2CV seppe reinventarsi con versioni ancora più sobrie e personalizzate, come la Charleston, che ne rilanciò l’immagine tra i giovani urbani.
Oggi, a 35 anni dalla sua uscita di scena, la 2CV continua a vivere nei raduni internazionali, nei musei, nei garage di collezionisti e nei cuori di milioni di appassionati. Le sue cifre sono impressionanti: oltre 3,8 milioni di esemplari della sola 2CV, che diventano quasi 7 milioni se si sommano tutte le derivate. E in un mondo che guarda alla mobilità elettrica, la sua semplicità meccanica e la sua leggerezza sembrano profetiche.
Non è un caso che il nome 2CV sia spesso evocato ogni volta che si parla di tornare a un’auto davvero essenziale, sostenibile, accessibile. La sua eredità resta attuale, perché racconta di un modo diverso di pensare l’automobile: non un lusso, ma uno strumento di emancipazione. Un pezzo di storia che, a differenza di molti, ha saputo attraversare il tempo senza perdere il senso del proprio messaggio.
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